Rana Raouda e i volti dell’assenza
La pittura astratta ha vari modi per relazionarsi col reale. Si pone come idealizzazione della posizione personale dell’artista nei confronti della realtà, come sovrapposizione del suo modello interiore alla realtà, come rifacimento sostanziale della realtà. In sintesi, come alternativa al mondo, che può essere razionale (geometrica, costruttiva, modulare), squisitamente ottico-percettiva od irrazionale (lirica, onirica, gestuale).
La pittura di Rana Raouda si piega indubbiamente verso quella linea sottile e tenue in cui l’artista trasforma la sua visione interiore in sostanza autonoma, sovrasensibile, con chiare implicazioni e aspirazioni spirituali. In questo ponendosi nel versante storico dell’espressionismo astratto che ha visto assumere atteggiamenti estremi e oscillanti tra la gestualità tragica e frenetica di un Pollock e l’inaction painting di un Rothko o di un Newman, dove l’apparizione iconoclasta ha spalancato le porte a scenari e visioni mistiche e sacre.
Le ultime opere di Rana Raouda, appunto nella loro allusività a finestre e porte (l’al di là, l’oltre la soglia, la presenza assente dell’immateriale) immerse nel blu (il colore che un altro artista “mistico” come Ives Klein riteneva essere la vera essenza della dimensione spirituale) sembrano farsi tutt’uno sia col gesto dell’artista che con la superficie della tela. Metafore concrete di una totale identificazione tra corpo della pittura e interiorità dell’artista, tra fluidità del pensiero, del sentimento e realtà ottica e sensoriale del colore. Superfici trascoloranti su cui scivola dolce la memoria e l’eco di una lontananza, di un desiderio, di un possibile reincontro con la dimensione misteriosa e indicibile della visione interiore e dell’intravisto.
E’ probabile che se il termine generico ma suggestivo “paesaggio dell’anima” dovesse trovare un corrispettivo d’immagine, come in una fotografia, queste ultime opere di Raouda ne sarebbero la controparte figurale e, appunto, pittorica: stiamo parlando sì di pitture, ma con tempi lunghi di esposizione. Negativi impressi da umori senza corpo ma di pura essenza.
Secondo questa metafora, ogni opera di Raouda, diluite le contraddizioni e le nevrosi della realtà, appare come un velo che fodera dolcemente il corpo vivo dei pensieri e dei vissuti. Se la condizione dell’indistinto, del non luogo, del principio fusionale, definisce qui la sua assenza di iconografia, quei profili radiografici ed evocativi ripropongono invece l’iconografia dell’assenza come un fantasma.
E dal momento che è possibile mostrare la forma del suono, delle onde elettromagnetiche o delle traiettorie atomiche, perchè non azzardare che una pittura come quella di Raouda possa essere una manifestazione diretta (soltanto mediata dalla cultura dell’arte) dell’emergenza emotiva di una personalità, certamente ricca di passioni, idee, sentimenti, pensieri, ricordi? Che poi, in fondo, è il senso stesso e ultimativo della pittura astratta e simbolista (di cui quella di Raouda è in qualche modo una diretta filiazione nella sua pur personale rivisitazione) e forse anche di quella figurativa e realista, in cui dietro le forme descrittive non si può non riconoscere l’identità più profonda ed emotiva dell’artista.
In conclusione, Raouda è ancora disposta a credere che si può riattivare quella sostanza pura, bella e “intoccabile” (questo è il senso latino del termine “sacer”) che il rumore e il caos del mondo contemporaneo (spacciatore schizofrenico di immagini) rendono un termine incomprensibile ed inattuale.